Nel coaching, la tecnologia può amplificare la riflessione, ma non sostituire l’unica vera competenza che ci rende umani: la presenza.
Prova a chiedere a un’Intelligenza Artificiale di scrivere una domanda potente per iniziare una sessione di coaching. In pochi secondi arrivano dieci proposte perfette, calibrate, grammaticalmente ineccepibili. Eppure, nessuna vibra. Nessuna nasce da un respiro, da un’emozione, da quella forma di attenzione viva che nel coaching chiamiamo presenza.
Essere presenti riconoscendo l’altro come soggetto
La presenza non è solo una competenza del coach, è una postura mentale ed emotiva. Significa esserci con tutto il sé: corpo, mente, intuizione. Significa ascoltare senza anticipare, accogliere senza risolvere, permettere al pensiero di prendere forma invece di forzarlo in una risposta. Nell’epoca dell’Intelligenza Artificiale, questa capacità diventa ancora più rara e preziosa.
Le tecnologie che ci circondano – ChatGPT, gli assistenti digitali, le piattaforme di supporto – nascono per semplificare. Ma la semplificazione, se non è accompagnata da consapevolezza, rischia di diventare riduzione: riduzione del dubbio, del tempo, della profondità. Il coaching, al contrario, è un atto di ampliamento. Mentre la macchina accelera, il coach rallenta dentro di sé per restare presente per l’altro.
Ogni coach conosce quel momento sospeso in cui il dialogo si ferma. Un respiro, un silenzio. È lì che nasce la consapevolezza. Le intelligenze artificiali non conoscono il silenzio: sono progettate per riempire, per concludere. Il coaching invece vive di pause, non di automatismi. Il silenzio, nel coaching, è un atto di fiducia: lascia spazio all’altro perché emerga.
Per questo la presenza non è una semplice abilità, ma una forma di coscienza. Quando siamo davvero presenti, riconosciamo nell’altro un soggetto, non un oggetto di elaborazione. La tecnologia, invece, tende per sua natura a trattare ciò che incontra come dato. La differenza è tutta qui: il coach non elabora informazioni, ma crea significato.
Dialogare con l’Intelligenza Artificiale
Siamo solo all’inizio di una rivoluzione. Le AI si stanno affacciando all’orizzonte e nessuno sa davvero cosa accadrà nei prossimi anni. Forse il confine tra umano e artificiale diventerà più poroso, forse la distinzione stessa perderà senso.
Già oggi ci sono però dei modi accorti per sfruttare le potenzialità delle nuove tecnologie. Il Research Hub internazionale della Society for Coaching Psychology (SCP Italy), con cui collaboro, ha sviluppato ReflectAI, un esperimento di intelligenza aumentata che segue proprio questa direzione. Non un chatbot che risponde, ma un ambiente che restituisce pensiero. ReflectAI non suggerisce soluzioni: rilancia domande, mostra angolature, provoca riflessione. È un partner cognitivo, non un sostituto. Quando lo si usa, si capisce subito che la sfida non è tecnica, ma interiore: restare consapevoli mentre la tecnologia riflette con noi.
Il compito del coaching, oggi, è forse questo: utilizzare con buonsenso gli strumenti a disposizione, senza dimenticare di custodire la presenza come linguaggio dell’umano, ricordandoci che la vera intelligenza non è quella che risponde, ma quella che ascolta.
In apertura una fotografia di Maria Rita Fiasco alla scultura dell’artista messicano Jose Dávila, Las piedras saben esperar – Le pietre sanno aspettare, esposta al Centro di Scultura di Peccia (Svizzera) nel 2021. La pietra sospesa può essere letta come metafora del sostare, dell’attesa, del silenzio, del dialogo interiore che, come abbiamo visto, sono elementi fondamentali per il lavoro dei coach.
Maria Rita Fiasco, Coach PCC ICF, Senior trainer e Management consultant