C’è un momento, in ogni trasformazione, in cui le domande sono il punto di partenza e le risposte sono da costruire. L’Intelligenza Artificiale nel coaching è proprio questo: un ambiente cognitivo nuovo, dove, al di là della tecnica, conta come il coach decide di abitarlo.
La ricerca AI&Coaching 2025, realizzata dal gruppo di lavoro del Comitato Scientifico ICF Italia e presentata la scorsa settimana alla XXII Conferenza nazionale ICF Italia Charter Chapter, nasce da qui: dal bisogno di capire cosa accade davvero quando un coach incontra l’AI. Non come fenomeno tecnologico, ma come esperienza professionale.
Per la ricerca sono stati interrogati 197 coach, per oltre il 65% con credenziali ICF, con un’età media di 50-59 anni e una presenza femminile significativa (69%).
La voce dei coach
L’AI è già parte del coaching: tre coach su quattro l’hanno già sperimentata in qualche forma. Solo il 23% non l’ha ancora utilizzata e due su tre vogliono iniziare. Non c’è barricata, non c’è rifiuto: c’è un movimento. Il messaggio che emerge è: la non-adozione è una fase, non una posizione.
I coach utilizzatori (Cluster A) mostrano un profilo più solido: un indice di adozione del 73,4%, un growth mindset alto e competenze più strutturate. Usano l’AI come alleata cognitiva e strumento di ottimizzazione: per preparare sessioni, sintetizzare evidenze, riflettere, esplorare possibilità.
I coach che stanno iniziando o non usano ancora l’AI (Cluster B) non sono “resistenti”: esprimono un mindset aperto, con un bisogno maggiore di orientamento, cornici chiare, formazione, regole.
Le barriere non sono emotive, sono cognitive
Benché presenti, le paure non sono il primo ostacolo all’utilizzo dell’AI. «Non la conosco abbastanza»: dice il 43,2% dei non utilizzatori. Per il 25% lo strumento mina alla relazione empatica tra coach e coachee mentre per il 13,6% si pone un problema di etica e privacy.
Sono barriere che chiedono di costruire un rapporto di fiducia informata, che nasce dalla conoscenza degli strumenti, dei limiti e delle implicazioni, per usare l’AI con sicurezza, senza delegare la propria responsabilità professionale.
Mindset alto, competenze in costruzione
Il dato più interessante della ricerca riguarda il growth mindset che è alto (3,9 su 5) in entrambi i cluster. Dimostra una comunità professionale aperta, curiosa, incline all’apprendimento. È un capitale prezioso. È qui che si apre lo spazio professionale più promettente: il coach è pronto mentalmente, ma ha bisogno di attrezzarsi.
La catena del valore del coach aumentato
Dalla ricerca emerge una teoria della maturità professionale nell’era dell’AI: la catena del valore del coach aumentato. Il mindset aperto del coach accende la curiosità; le competenze acquisite rendono l’AI utilizzabile in modo consapevole. Conoscere il contesto, come l’AI gestisce i dati, quali logiche usa per generare risposte, quali limiti ha, quali policy la governano, ne favorisce l’utilizzo che, se di qualità, arriva realmente al cliente.
Tre direttrici di sviluppo professionale
La ricerca identifica tre direttrici di sviluppo professionale:
- AI literacy
Capire come funziona l’AI, i suoi limiti, le sue possibilità, i suoi rischi. Saper muoversi tra privacy, dati, disclosure. È la base della fiducia. Anche dalla community (31,5%) emerge un bisogno di formazione tecnica anche basata su casi d’uso.
- Mediazione uomo-macchina
Saper dialogare con l’AI, leggere criticamente, integrare senza delegare.
Non è solo saper scrivere i giusti prompt: è discernimento. Linee guida etiche sono richieste dal 30,5% dei coach.
- Metacognizione aumentata
Osservare come pensiamo mentre usiamo l’AI. Riconoscere bias, automatismi, scelte implicite. Regolare intenzionalmente il nostro modo di essere coach.
Sono competenze nuove, profondamente coerenti con il DNA del coaching: la consapevolezza, l’intenzionalità, la responsabilità.
Il coach che sceglie
Il coaching è una relazione che evolve. E nella relazione, lo strumento dell’efficacia resta il coach. L’AI non sostituisce, non automatizza, non impoverisce. L’AI interroga. Chiede al coach di scegliere chi vuole essere mentre la utilizza. Il futuro del coaching è nell’intelligenza aumentata del coach. E in quella qualità di presenza – competente, consapevole, etica – che nessuna tecnologia potrà mai replicare.
In copertina La Cattedrale (1908) di Auguste Rodin. La scultura raffigura due mani destre, appartenenti a due persone diverse, che si sfiorano senza toccarsi completamente.
Le dita si incontrano creando una cavità centrale, uno spazio sospeso, carico di intenzionalità.
Rodin lo definiva «uno spazio sacro» fra le mani. Uno spazio che dovrebbe crearsi anche tra la tecnologia e il coach, di ascolto, di presenza, di consapevolezza, di possibilità. Uno spazio che l’AI può ampliare, ma non sostituire.
Maria Rita Fiasco, Coach PCC ICF, Senior trainer e Management consultant









