Viviamo in un mondo iperconnesso costellato da smartphone che vibrano, e-mail che arrivano a ogni ora, riunioni su piattaforme digitali, notifiche dai social, messaggi su almeno cinque chat diverse. La tecnologia ci semplifica la vita, certo, ma quante volte ci è capitato di sentirci vittime del suo potere di sottrarci energia, concentrazione e persino benessere? Questa sensazione ha un nome e si chiama “tecnostress”.
Fenomeno delineato già negli anni ’80 dallo psicologo Craig Brod, il tecnostress è definito come una forma di stress psicofisico generata dall’uso eccessivo o mal gestito delle tecnologie digitali. Fu lo stesso Brod a portare all’attenzione delle aziende questa dinamica, sottolineando come il problema non risieda, allora come oggi, negli strumenti in sé, ma nel ritmo frenetico e nell’aspettativa dell’immediata responsività che essi hanno creato.
Il paradosso dell’iperidentificazione con il digitale
Tra gli aspetti più interessanti messi in luce da Brod emerge il concetto di iperidentificazione con la tecnologia, un meccanismo psicologico attraverso cui, nonostante la consapevolezza dello stress causato dal digitale, finiamo per dipenderne. In questa prospettiva, lo smartphone non è più uno strumento, ma un’estensione della nostra identità. La sensazione di smarrimento quando lo dimentichiamo a casa, la convinzione che velocità e reattività di risposta definiscano il nostro valore professionale e la trasformazione di ogni notifica in un’urgenza sono segnali di una fusione profonda del sé con la tecnologia.
È fondamentale fermarsi a riflettere su come questo meccanismo sia del tutto paradossale e contraddittorio: pur essendo consapevoli che l’uso intensivo della tecnologia ci stressi e ci sovraccarichi, finiamo comunque per esserne dipendenti. Il paradosso sta quindi nel fatto che la stessa tecnologia che ci causa stress diventa al tempo stesso indispensabile per la nostra identità e per sentirci efficaci, creando un circolo vizioso: più cerchiamo sollievo, o controllo, tramite gli strumenti digitali, più ci esponiamo agli stimoli stressanti. Questa fusione tra sé e il digitale genera un sovraccarico mentale permanente e impedisce di rallentare e staccare, mostrando come il problema non sia la tecnologia in sé, ma il modo in cui ci leghiamo emotivamente e psicologicamente ad essa.
Il diritto alla disconnessione
Oggi il tecnostress è riconosciuto come un rischio professionale anche dal sistema normativo italiano, soprattutto con la diffusione dello smart working e della digitalizzazione dei processi organizzativi. L’iperconnessione sta abbattendo il confine tra tempo lavorativo e vita privata: la tecnologia non si spegne quando timbriamo l’uscita, e una semplice notifica può riportarci al lavoro anche durante il riposo, con effetti negativi sulla salute psicologica, sulla produttività e sul benessere organizzativo. In questo contesto, il diritto alla disconnessione assume un ruolo centrale.
Progressivamente riconosciuto in Europa e integrato nelle normative e nei contratti italiani, garantisce al lavoratore la possibilità di interrompere ogni attività lavorativa al di fuori dell’orario stabilito, senza pressioni a essere reperibile. Non si tratta solo di “spegnere il telefono”, ma di creare una cultura aziendale che valorizzi i tempi personali e stabilisca confini chiari tra lavoro e vita privata. Sono in crescita le aziende che adottano politiche aziendali per tutelare questo diritto, consapevoli che la disconnessione non è un lusso, ma una misura preventiva concreta che protegge il benessere dei lavoratori e promuove la sostenibilità delle organizzazioni.








