Un cambio di paradigma
Protagonista dello scenario del lavoro odierno, la Generazione Z – che comprende i nati tra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2010 – porta nel mondo del lavoro un cambio di paradigma radicale. Se per le generazioni precedenti i fattori principali nella scelta di un impiego erano retribuzione, stabilità e prospettive di carriera, oggi la GenZ è consapevole che questi sono ormai obiettivi difficili da raggiungere, dunque la priorità si è spostata altrove.
Centrale, per i giovani, è il concetto di benessere, soprattutto quello mentale, che diventa prioritario in qualsiasi ambito della vita, specialmente quella lavorativa. Secondo il Deloitte Global Gen Z and Millennial Survey 2024, il 59% dei giovani valuta la salute psicologica come criterio fondamentale per decidere se accettare o rifiutare un’offerta di lavoro, una percentuale decisamente più alta rispetto a quelle delle generazioni precedenti.
Cosa ci dice questo dato? Che un datore di lavoro che ignora questa dimensione parte già svantaggiato, perdendo la possibilità di attrarre a sé giovani talenti e, di conseguenza, di innovarsi e progredire nel mercato del lavoro. L’esigenza di un clima lavorativo sano e positivo non può più essere considerata una “pretesa giovanile”, ma il nuovo modo di concepire la relazione tra individuo e organizzazione.
La persona viene prima del professionista
Questa generazione è cresciuta in un contesto in cui parlare di salute mentale è normale, diffuso e incoraggiato. Ansia, stress e burnout non sono più considerati problemi privati da nascondere, ma fenomeni da affrontare apertamente e collettivamente. La Gen Z, infatti, considera il lavoro come parte integrante della propria identità, non come semplice fonte di reddito: da qui l’esigenza di sentirsi ascoltata, valorizzata e rispettata.
Ai giovani è ben chiaro che solo coltivando le proprie risorse interne, si può diventare risorse vincenti. Una ricerca Gallup, State of the Global Workplace 2024, dimostra che hanno ragione: secondo l’indagine, i team che lavorano in ambienti ad alto benessere registrano un +23% di produttività e una minore tendenza al turnover. La lezione è nitida: per le aziende, implementare programmi di benessere non è più considerabile un costo, ma un investimento in termini di valore e qualità del lavoro. Lo stipendio, da solo, anche se alto, non basta più, ciò che davvero attrae e fidelizza i giovani talenti è la possibilità di lavorare in contesti che riconoscono la persona prima ancora del professionista.
La sfida (e l’opportunità) per le organizzazioni
Per attrarre e trattenere i migliori profili della Generazione Z, le aziende devono ripensare la propria cultura organizzativa. Cosa significa concretamente? Innanzitutto, favorire un reale equilibrio vita-lavoro, attraverso flessibilità oraria, lavoro ibrido e il rispetto del diritto alla disconnessione. Significa investire nella salute mentale, offrendo sportelli di ascolto psicologico, percorsi di coaching e formazione o iniziative di prevenzione del burnout.
Un ruolo cruciale lo giocano i manager: non più semplici “supervisori”, ma leader empatici, capaci di ascoltare, dare feedback costruttivi e valorizzare i successi. A questo si aggiunge la necessità di creare processi partecipativi e trasparenti, in cui i dipendenti si sentano parte attiva delle scelte aziendali e iniziative culturali che contribuiscano a rafforzare il senso di appartenenza.
Le organizzazioni che sapranno raccogliere questa sfida diventeranno più competitive anche sul lungo periodo, perché un benessere autentico si traduce in innovazione, engagement e resilienza. In definitiva, la Generazione Z non sta chiedendo un privilegio, ma ricordando a tutti noi che senza benessere non c’è futuro per il lavoro.