Durante una recente conferenza, un collega di grande esperienza ha descritto con sorprendente chiarezza le fasi di evoluzione di un coach:
- il coach poco esperto vuole salvare il coachee;
- il coach mediamente esperto cammina al suo fianco;
- il coach esperto fa un passo indietro e si fida del fatto che il coachee possa trovare da solo la propria strada.
Quelle parole mi hanno colpita perché catturano perfettamente l’essenza del nostro lavoro. È facile, soprattutto quando si vuole sinceramente aiutare l’altro, cadere nella tentazione di offrire soluzioni. Dà l’illusione di essere utili, ma indebolisce il coachee, sottraendogli la possibilità di attingere alle proprie risorse.
Un episodio recente me lo ha confermato. Durante una sessione di group coaching sulla gestione dei confini tra vita privata e vita professionale, i partecipanti tendevano ad attribuire agli altri (i colleghi, il capo, i clienti…) la responsabilità delle loro difficoltà. Più volte mi hanno chiesto un parere. Invece di dare indicazioni, ho rivolto loro delle domande: «Che ruolo avete nella formazione dei vostri confini?», «Cosa cambia quando riconoscete ciò che è importante per voi e lo comunicate in modo chiaro e rispettoso?»
In chiusura di sessione una persona mi ha confessato di sentire il peso della propria responsabilità nella gestione dei confini. Un’altra ha riconosciuto quanto tutti tendessero a sentirsi indispensabili. Non avevano ancora la soluzione, sarebbe arrivata con il tempo, ma avevano trovato uno sguardo nuovo da cui partire. Ed era quello il vero inizio del cambiamento.
Stare un passo indietro richiede coraggio: significa credere che l’altro possa trovare risposte autentiche dentro di sé, anche se non immediate. Significa creare uno spazio che continui a lavorare nel tempo, in modo “sotterraneo”, ben oltre la sessione.
Provenendo dalla consulenza, mi è servito tempo per imparare che il coaching non è il luogo delle indicazioni, ma dell’esplorazione. Ho imparato a porre domande che non guidano verso una risposta “giusta”, ma aprono scenari; domande che non risolvono, ma rivelano. Il mio compito non è offrire soluzioni, ma creare un contesto in cui possano emergere spontaneamente.
All’inizio temevo di apparire distaccata quando evitavo di dare consigli. Oggi so che il mio valore non sta nelle risposte che potrei suggerire, ma nella presenza attenta e discreta con cui accompagno l’altro.
Quando scelgo di fare un passo indietro, comunico al coachee che mi fido di lui. Lo lascio condurre il proprio percorso e, quando arriva a una nuova comprensione con le sue forze, ricordo perché questo lavoro è così potente: non sono io a trasformarlo, è lui a trasformarsi. Perché è nel passo indietro del coach che il coachee avanza.









